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Santiago brulicava di sirene e odore di polveri e bruciato. L’interno del Cafè de la Barra pareva una piccola bolla pulsante, calda, resistente. Da qualche minuto, tazze tavolini e scaffali non avevano più tremato, ma tutti sapevano che l’assestamento della crosta terrestre non avrebbe concesso pace a lungo.
“Come si sceglie un testimone della nostra vita?” disse Antares senza guardare Luz negli occhi, ma fissando il margine superiore di un grande specchio posto a una delle pareti della caffetteria, dietro le spalle di lei.
“E chi lo sa, mio caro Antares senza cognome… Forse la domanda giusta non è come ma perché, non crede? Ma non diamo risposte, la prego, lasciamo fare alle nostre scelte, alle intuizioni che le hanno edificate”
“Ora l’ha passato, il testimone di questa storia”
“Per tutta la durata del volo da New Delhi a Madrid non feci altro che pensare a Kalindi e a Manuel, e al viaggio colmo di incertezze che aveva intrapreso”
“Mentre parlava mi domandavo una cosa che suonava assurda a me per primo, e che pure mi pareva l’unica domanda possibile: che fine avrebbe fatto Manuel se non avesse affrontato quel viaggio?”
“Non ha senso domandarselo, ha senso solamente la sua storia”
“La sua cambierà da stamattina”
“Tutte cambiano da stamattina”
“E compirà un viaggio colmo di incertezze”
“Non ha mai avuto l’impressione, Antares, che le storie che le vengono raccontate e la sua vita abbiano dei legami?”
“Ha trovato un filo?”
“Vede, prima che il giorno ci faccia alzare da questo tavolino, terremoto permettendo, vorrei tornare a me. Non molto tempo fa rimasi nuovamente incinta. Parliamo di questa mia ultima vita, se vuole vederla così, e che finisce questa notte. Avevo avuto una relazione di qualche mese con un uomo sposato, poi divorziato, poi scomparso, sembra essere la parabola di queste cose, quando queste cose riguardano me… Persi il bambino, oltre che l’uomo, non ero neppure al terzo mese di gravidanza. Complice l’età, il caso, una salute non più ferrea, chi lo sa. Successe. E questo basta. Ne uscii sconvolta, non perché vissi un rifiorire di senso materno, cosa che probabilmente, del resto, non mi è capitata mai. Ma avevo creduto a qualcosa, qualcosa di nuovo, che non fossero soltanto terremoti. Sia chiaro, non ho mai ricoperto il ruolo della mamma realizzata e appagata, neppure quando nacque Ruben, non sono io quella cosa lì, non mi consolava la presenza di mio figlio, non mi faceva vedere il mondo redento, tantomeno uscendo da una gravidanza spossante e colma di rabbia e disillusione per ciò che era accaduto con Julian Rafael. Eppure tenerlo fra le braccia era un’emozione straordianaria che non avevo vissuto mai, e che non riuscii a rivivere più. Sta di fatto che dopo l’aborto vissi un periodo furibondo e delicato, mi sentivo nuovamente rinchiusa in una stanza di prostrazione, probabilmente riaffiorò il vissuto con Julian, o forse no, forse riaffiorò semplicemente quello che della mia vita non avevo mai accettato.
“Quello che so è che avevo bisogno di evadere, di camminare, di respirare, di avere a che fare solo con il mio mondo di prima di quell’altro uomo e di quell’altro figlio, entrambi persi, per l’ennesima volta. Mi sentivo come se mi avessero derubata di tempo. Così ripresi a frequentare un paio di amiche, persone che conosco da molti anni. Una separata, l’altra single. Non che facessimo chissà quale vita, ma indubbiamente per me era una nuova ventata di fresco, ballavo, bevevo, ridevo, mi comportavo da ragazza, anche se non lo ero più da qualche tempo, lo vede anche lei. Mi ricordai -lo avevo sempre saputo ma anche questa volta avevo smesso di darci peso- di essere attraente, bella, e molto spigliata. Come spesso accade, sono qualità che coi nostri mariti o conviventi mettiamo da parte e facciamo valere soltanto fuori, sa com’è… Comunque sia, ripescai dal cilindro queste doti, e ci giocai. Ma forse a quarant’anni si gioca con ben altro piglio. Gli uomini mi notavano, mi stavano dietro, però non capitava mai che lasciassi il mio numero di telefono, ero sicura che non fosse quello che stavo cercando, non era certo il momento. E’ questo, no, che ci raccontiamo sempre? Si rivelò un periodo liberatorio ma non risolutivo, intendo dire che prendevo aria ma non mi acquietavo, al contrario, probabilmente perché non stavo affrontando, ancora una volta, le questioni fondanti per cui mi trovavo a quel punto della vita, quali fossero le mie responsabilità, quali le variabili esterne. Ci sarei arrivata di lì a poco, plausibilmente. O forse devo ancora arrivarci… Quel che è certo è che ciò che contava per me, in quei mesi, era di indossare nuovamente un abito che mi era stato strappato. O meglio, che avevo lasciato, per l’ennesima volta, che mi si levasse. Ma riprendo il filo… Ogni volta che riuscivo a organizzarmi, facevo in modo di avere il fine settimana libero, e il sabato mattina con le amiche andavamo a Valparaíso, o a Viña del Mar. Stavamo in piedi tutta la notte, fra spiagge e locali, non usufruimmo mai di una stanza d’albergo. Neppure a vent’anni vivevo a quel modo, ora ne avevo più del doppio ma mi divertivo come una pazza! Tornavamo a Santiago la domenica sera. Quando andavo a trovare mia madre e le raccontavo qualche sprazzo della mia vita, non commentava ma lanciava certe occhiatacce… Non è stata mai una donna ciarliera, almeno da un certo momento della sua vita, ha sempre saputo della mia foga nel perseverare dove mi farò male, dove il muro mi piomberà in faccia, dove il burrone mi farà scivolare. Ma non si è mai presa la briga di farmi la morale. Non ne avevo bisogno, del resto, soprattutto in quel momento, avevo bene in mente cosa stavo facendo e perché. Insomma, una domenica tornammo da Viña del Mar prima del solito. Da perfette ragazzine quali ci sentivamo in quelle settimane, per chiudere la serata decidemmo di andare a cena fuori, prima di rientrare, nonostante avessimo sulle spalle quarantotto ore senza sonno. Ricordo che tentammo in un paio di ristoranti, ma erano pieni, così optammo per un locale dove si potesse anche solo bere e mangiare stuzzichini. Era ormai estate, e anche in città stava aumentando il flusso di turisti. Fu in quel locale che conobbi un ragazzo. Era un suo conterraneo, Antares, uno spagnolo in viaggio con la famiglia, avevano bisogno di una vacanza importante. Era la prima volta, mi disse, che veniva in America Latina. Fatto sta che mentre le mie amiche mi guardavano come se stessi allungando la gamba oltre un dirupo, andai al bancone, dove il ragazzo stava bevendo, e con la scusa di ordinare gli chiesi il nome, e se il giorno seguente fosse ancora in città. Non ci pensai un secondo, e gli proposi un appuntamento per il pomeriggio. Mi aveva guardata con insistenza fino a un attimo prima, noi stavamo a un tavolino, lui era allo sgabello, prima solo, poi venne raggiunto da una ragazza che mi spiegò essere sua sorella. La prima mossa la feci io, è vero, ma da quel momento entrambi allungammo una mano senza neppure accorgercene, e ci scaraventammo come su di un pavimento di quelle stanze da ragazzi dalle quali non si uscirà più, anche quando se ne uscirà. Le mie amiche, una volta in strada, mi diedero della pazza, ridendo con sul viso ogni granello di malizia femminile, ma io sapevo che avevano ragione. Eppure, semplicemente, non me ne importava. Quel ragazzo aveva meno della metà dei miei anni, probabilmente non era neppure maggiorenne. Possedeva lo sguardo dannato che ha l’ingenuità di certa giovinezza, quel momento in cui dovrai perderti, prima di rinascere, ha presente Antares… E lui era perso fino alla vergogna, ma capii molto dopo il perché. Era in balìa del disastro, era aspro, bellissimo. Parlava poco, accennava spesso a silenzi lontani, sorprendevo il suo sguardo incollato oltre me, oltre i dintorni, oltre il tempo in cui ci trovavamo, ma nonostante ciò non si sarebbe aspettato di salire assieme a una perfetta sconosciuta su di una giostra che gira al contrario all’altro capo del mondo, ed era incredulo e sballottato quasi quanto me. Io però avevo un’altra età, e sapevo per quale motivo stavo girando al contrario, e quanto fosse meraviglioso ma temporaneo.
“Lui e la famiglia si fermarono in Cile un paio di settimane, spostandosi fra Atacama, la regione di Antofagasta, Valparaíso, Viña del Mar, ma la loro base rimaneva Santiago. Nei giorni seguenti mi disse che in realtà quella non era la sua famiglia naturale, ma non mi spiegò praticamente niente altro. Io stessa, del resto, non mi interessai troppo e non feci domande ulteriori. Ogni volta che era in città e si staccava dagli altri ci vedevamo a casa mia. Ci saremmo incontrati non più di sette otto volte, un’ora o due a incontro, cose del genere, tranne un giorno, quello prima del suo rientro in Europa, che trascorremmo interamentre insieme. Fu una follia di una bellezza esemplare, come certi reati perfetti, Antares, mi segue?… Avevo bisogno di quell’incendio, perché gli ultimi tempi avevo nuovamente vissuto di brace sotto la cenere, di asfissia. Chiaramente quel ragazzo non poteva saperlo, io sì. In ogni caso anch’io gli raccontai molto poco di me, non cercavo un confessore ma un complice fortuito, gli parlavo soltanto attraverso i baci e le carezze, ed il mio corpo tradito e spasmodico, scansando, incontro dopo incontro, il carbone col quale avevo soffocato i desideri, e col quale avevo messo a tacere la rabbia e l’amarezza. E sentivo, da qualche parte, che quella vampa stava riscuotendo anche lui. Eppure, nonostante la stucchevole consapevolezza con cui pare che ora la stia ipocritamente illuminando, mio caro, al tempo ci facemmo tanto di quel bene e tanto di quel male, che a ogni ora che trascorrevamo insieme mi chiedevo come avremmo potuto uscirne raccapezzati. Furono incontri famelici e silenziosi, quasi furibondi, morsi dalla manchevolezza e dalla scoperta, dal suo stupore e dal mio assillo. Lo travolgevo con smania ed ingordigia. Ero affamata e arrabbiata. Lo ingiuriavo col mio corpo, che non avevo usato mai a quel modo, inviperito, brulicante, sfinente. Non mi ero data con tale febbre ad alcun uomo in vita mia. Lo assalivo per le scale, arrivavamo sul letto senza fiato, lo trascinavo sul pavimento. Fu spaventoso e misteriosamente romantico. La giornata trascorsa insieme non bevemmo e non mangiammo altro che il tempo che mancava prima di separarci. Lo presi dieci… quindici volte, non so, volevo riempire l’aria di orgasmi, leccavo il disegno dei suoi occhi che guardavano lontano, leccavo il suo sorriso incastonato come un segreto, lo afferravo per i capelli e gli tiravo la testa fra le cosce, gli morsi i capezzoli e il petto, lo ferii, urlò, sanguinò, lo feci venire sulle mie mani e con il suo seme gli lavai la ferita, leccandola, baciandolo, sapeva di cose meravigliose e definitive, di spazio rubato, di montagna bruciata, di innocente infedeltà. Lo pungolavo come un capriccio, lo sentivo sussultare e soffrire, gli succhiavo il cazzo per minuti fino a che mi allontanava con uno spintone, ci ribaltavamo guaendo come felini che si scontrano nei recessi di un cortile, tra zampate, isteria, attacchi e fughe. Eppure, quando era lui a prendermi, il suo impeto era misto a una dolcezza ostinata, attenta. Moriva di me, moriva per noi, ma i suoi orgasmi erano sempre silenziosi.
“A un certo punto del pomeriggio mi pregò di dormire qualche minuto, esausto, ci inseguivamo da una stanza all’altra, sudati come dei maratoneti. Ma io gli salii sul petto, stringendogli il torace con le gambe, e gli dissi ‘domani parti e non ci rivedremo più, invece di dormire scopami, ragazzino!’, poi scesi verso il pube, mi voltai dandogli la schiena, e continuai a fare l’amore guardando le sue gambe e la vecchia libreria che tenevo in soggiorno e che fu di mio padre. E pensai a Borges… ‘Se mi chiedessero di nominare l’avvenimento più importante della mia vita, io direi la biblioteca di mio padre’.
“Era mio territorio quel ragazzo. Lo fu per poco e penso di dovercene ringraziare reciprocamente. A sera, ci ritrovammo riversi sul pavimento, sotto una patina di lividi e lussuria, sfiatando come al termine di un incontro. Ero stata avida e puttana, lo so perfettamente. Ma avevo bisogno di succhiare ogni nostro angolo e respirare ogni colpa. Per un istante mi era sembrato perfino di doverlo uccidere. Quell’ultimo giorno, Antares, distruggemmo, quando con ogni probabilità avremmo dovuto ricomporre, incidentati come entrambi eravamo. Eppure il tozzo di mondo che mettemmo in piedi ci permise di respirare. E questo basta.
“Quel ragazzo fu la mia vendetta e i miei figli, e l’innocenza barattata con la fame.
“Le risparmio la domanda, Antares, non mi sono mai innamorata in vita mia. È tutta la notte che le parlo di uomini, mediocri pavidi o feriti, ma il colpo di genio dell’amore non l’ho ancora avuto. La verità è che si ama per un istante. Non c’è che un solo tempo verbale in amore: il presente. La nostra mente necessita di forme e soluzioni assolutistiche, non è soddisfatta dalle varianti della realtà, e in amore con questo modus operandi ci andiamo a nozze, eppure le cose e la realtà credono ad altro. Allora le dico che ben che vada si ama per una serie di istanti. Ci piace di più? Ma quel tempo continuo, nel quale intingiamo ogni cosa o sentimento, è una aberrazione. L’amore è un picaro. Ed è avulso dalla morale che gli abbiamo conferito col grande romanzo popolare, drammatico e sentimentale che vi abbiamo scritto attorno. Non ha motivo di doverci salvare o giustificare. La sua potenza sta nel fatto d’essere molto meno di quello che abbiamo bisogno che sia. Eppure noi, artefici del più di ciò che ci accade, non sappiamo avere il coraggio delle nostre responsabilità. Le basti pensare che siamo la specie che ha l’esigenza di un dio per proseguirsi. Atei o fedeli: credere in qualcosa, a qualunque costo, è la nostra indole. Eppure non verremo redenti. Ci basterebbe essere all’altezza di accettare, né più né meno, quello che siamo.
“Mi ribatterà che sono cinica e ferita. Oppure, se ho ben capito, se ne starà in silenzio. Naturalmente è legittima ogni interpretazione. Semplicemente io so che è giusta la mia.
“Infine quella sera, prima di andarsene per sempre da casa mia, pianse, e mi strinse talmente forte che ebbi paura ci rompessimo entrambi, stavolta sì. Il giorno seguente, come le dicevo, sarebbe tornato in Europa. Non gli dovetti spiegare che non ci saremmo più rivisti né sentiti. Sapeva perfettamente, e ne pativa malamente, cosa eravamo stati.
“‘Todo mi amor está aquí y se ha quedado pegado a las rocas, al mar, a las montañas…’, le è capitato di incontrare queste parole qui a Santiago, Antares? Sono incise sul marmo del Memorial del Detenido Desaparecido y del Ejecutado Político, che si trova al Cementerio General. Ne è autore un poeta cileno -figlio di un’italiana- che non penso conosca, Raúl Zurita. Eccola la mia forma d’amore. Tanto vasta quanto difettosa.
“Per spiegarglielo meglio, le dico ancora questo -e così le parlo di un altro uomo!-: mio padre è uno dei nomi incisi su quel muro. Io nacqui con Allende, lui morì con Pinochet. Ero bambina quando accadde. Non si diceva morto, si diceva desaparecido, certo. La differenza risiede nell’ignomìnia dei fatti. Molti anni dopo la sua morte, mia madre mi raccontò una cosa che nella mia testolina di ragazza arrabbiata e scontenta assunse, e mai abbandonò, la forma più netta di cosa fosse stato il golpe. L’11 settembre -parlo del 1973, inutile che glielo spieghi Antares-, pochi minuti prima che gli aerei dell’esercito bombardassero il Palazzo presidenziale della Moneda, qualche chilometro più in là, a San Miguel, i militari fecero incursione nell’ospedale pubblico Barros Luco, e spararono e uccisero barbaramente pazienti, parenti, medici e infermieri, nel cortile erano ammonticchiati i cadaveri. Fu un monito, per mettere in chiaro le intenzioni. Sono ancora quella ragazza, non v’è dubbio, e parlo da arrabbiata e scontenta, da donna e non da storica, ma le dico questa cosa: quell’ospedale, quegli spari, quei morti, sono il senso più alto, intendo il più implacabile, di cosa sia stato il golpe. Prima ancora delle immagini della Moneda sotto le bombe che abbiamo visto e rivisto tutti. Non mi fraintenda, Antares, in tanti abbiamo amato Allende e la sua dolce fermezza, l’eleganza, l’umanità e, mi permetta, il senso dell’amore che infuse in molte coscienze. Mio padre e mia madre piansero mentre Radio Magallanes ripeteva il suo ultimo discorso ai cileni, eravamo in cucina ed io ero talmente piccola che quando dico di ricordare lo faccio forse più per rispetto verso mamma papà e Allende, che con certezza. E’ capitato anche a me di piangere, del resto, riascoltando la registrazione, in seguito, più d’una volta. Ma insisto: il senso della fine del mondo in Cile fu quell’ospedale, furono tutte le mattine in cui terminava il coprifuoco e uscendo per le strade si incontravano i corpi delle persone uccise durante la notte, furono le migliaia di ragazzi sterminati nel giro di pochi mesi, dopo l’11 settembre. E oggi quel senso rimane in mano alle donne che ad Atacama cercano, insistentemente, e a volte riportano alla luce, i resti dei loro mariti, o dei loro cari. Perché è come se il senso di una qualche giustizia debba comunque essere svelato, anche se non ottenuto. Mi segue? Eppure, Antares, il cardine del discorso è più triste ancora. Vede, siamo soliti pensare che l’11 settembre 1973 e gli infiniti anni della dittatura militare abbiano rappresentato per il Cile, ma anche per il mondo, uno scioccante punto di svolta. L’intero Plan Condor del resto, quel criminale progetto statunitense di ostacolare con gli eserciti le torture e la repressione ogni tentativo di svolta di carattere socialista, pur se democraticamente eletta -come nel nostro caso-, potremmo vederlo sotto ques’ottica. Ma non è così. Il settembre ‘73, così come Videla e i voli della morte in Argentina, e non proseguo il triste elenco che conoscerà quanto me, non hanno rappresentato nulla di straordinario, bensì il suo opposto, cosa crede. Pinochet e la CIA non hanno ribaltato il Cile e il mondo, hanno invece messo in chiaro che tutto deve rimanere immobile. Il sistema dei poteri non spara sulla folla o fa saltar bombe per cambiare rotta, ma per fermare la Storia, ammonire allo status quo, nei momenti in cui la Storia anela con maggior forza.
“Noi la Storia la conosciamo attraverso i grandi avvenimenti, ma è attraverso le nostre vite che la sappiamo. E’ la famosa -o forse non abbastanza- differenza che intercorre tra memoria e Storia, ha presente Antares? Per questo le sto dicendo che le parlo da donna, o da bambina se preferisce, e non da storica. Io so di Allende, certo, come tutti, ma l’unico Allende che conosco è quello di mia madre e mio padre che si abbracciano piangendo di fianco alla radio la mattina dell’11 settembre, o l’Allende con lo sguardo sconvolto ma paradossalmente tenero che assunse sul portone della Moneda, con il casco in testa e quel maglione stonato sotto la giacca abbottonata, lui sempre così elegante, a constatare la fine di tutto, probabilmente in quel momento a decidere di morire. Tolstoj diceva che colui che è protagonista di un fatto, o di un evento, non lo può comprendere veramente, storicamene parlando. Non sono queste le parole esatte, non le ricordo a memoria, ma ci siamo capiti. Si trova in “Guerra e Pace” questa riflessione. Ebbene sì, una delle mie vite l’ho dedicata a quel romanzo… Negli anni a venire, con il nome di mio padre già inciso su quel marmo, ne ho letti molti libri di storia. E forse ho compreso qualcosa di più dell’insieme, del quadro generale, se vogliamo definirlo così. Eppure è proprio questa intromissione della Storia in una mancanza della mia vita, che mi offende. D’altro canto a me non interessa vestire i panni della vittima a tutto tondo, non è quella sorta di “ricatto del testimone” il sistema dialettico che sto avanzando. La memoria è necessaria, quanto legata all’io, fragile, impregnata di polvere, sangue, sofferenza e sentimento. La memoria è una cosa, la Storia un’altra. Anche se sovente, per ignoranza o per pigrizia, preferiamo confonderle. Per cui non le sto dicendo che soltanto io possa comprendere quei giorni e quegli schifosi anni, per intenderci.
“Vede, mio padre scomparve il 16 di settembre. Ed io, quello che so di lui, lo conosco tramite il golpe, tramite il crimine e il difetto. Capisce cosa le sto raccontando? Che io non posso fare a meno di guardare la Storia, per intravedere lui. Al tempo stesso le dico che mi è necessario scansarla, per ricordare le cose, per riportare alla mente l’odore di quel giorno nella cucina di mia madre e di mio padre, per ricordare il suono della voce di Allende fuoriuscire dalla radio, per sapere, a tasselli, a pennellate fuori dal disegno, a presenze e a mancanze, chi cazzo è o non è Luz Inocencia Santana Carrasco.
Non so se abbia fatto a tempo a insegnarmi qualcosa, mio padre, se non attraverso questa ricerca di lui, a volte ostinata a volte patetica, che credo di portare avanti. Ma la sua storia personale intersecata alla Storia degli uomini mi hanno raccontato di un mondo e di un tempo che possono assumere esclusivamente la forma che vogliamo che acquisiscano. Siamo noi ad avere fallito, oppure meritato. Il resto sono modi di dire.”
Albeggiava in modo incerto. Negli occhi di Luz Inocencia si alternavano riflessi e tradimenti, tenere fiammelle e avidità, ma la sua postura, così come la compostezza del timbro vocale non erano arretrate d’un centimetro. Antares, imbrigliato in quel magma lento, muoveva gambe braccia e inclinava il volto come a cercare un equilibrio senza trovarlo, e senza soluzione di continuità. Dopo alcuni minuti di silenzio tra loro, circondato dal vociare sempre più impastato del bistrot, Antares rivolse a Luz un nuovo sguardo e le chiese
“Sua madre le ha parlato molto di suo padre?”
“Vivere al passato è una pesante condanna”
Forse il mattino nuovo di là dei vetri contribuiva ad alterare la luce di dentro, perché l’atmosfera cominciava a degenerare in colori meno morbidi ma scoppiettanti.
“Ha pensato ancora al ragazzo spagnolo, se non è inopportuna la domanda?”
“Sta facendo giorno, Antares, fra poco dovrò constatare se la mia casa è ancora agibile, dopodiché metterò in valigia un po’ di cose per partire alla volta della mia prossima vita, suona bene vero?…” riaffiorava lo sguardo sottile e ironico di inizio conversazione, ma sarebbe nuovamente scomparso a breve, Antares non poteva sapere.
“Sembra che viva per finire dentro a un romanzo, Luz…”
“E’ perché lei propende per interessi letterari, probabilmente. Io talvolta non mi vedrei male dentro a un quadro, meglio ancora un film!”
“Lei è sempre abile a eludere le domande…”
“Lo siamo stati entrambi, questa notte. Pensa di avere cuore per un giro ancora del filo di cui mi domandava?”
“Vorrei provare”
Con il dorso di due dita Luz, preda di una delicatezza sfrontata, scansò la tazza vuota del suo americano. Quindi voltò il busto e afferrò la sua borsa, appesa per i manici allo schienale della sedia. Antares continuava a seguire il mistero di quella donna e si stupì di non avere notato la borsa, nera, elegante, opaca. Luz estrasse quello che sembrava un foglio piegato, ma appena lo dispiegò, lentamente, Antares capì che erano molte pagine. Fece per pronunciare una domanda, ma si trattenne prima ancora che il fiato arrivasse in gola. E preferì attendere.
“Così lei è di Madrid, dicevamo”
“Esatto”
“Conoscerà Salamanca…”
“Già”
“Questa storia in larga parte si svolge laggiù. Ha per protagonisti un uomo che pensava di morire, e un ragazzo che pensava di vivere. Entrambi disattesi. Mi trovavo a Salamanca assieme a mia sorella, come ricorderà ero andata a trovarla di ritorno dall’India, e avevamo trascorso una giornata in città prima di rientrare a Segovia, dove vive. La vicenda mi è stata raccontata dall’uomo che ne è protagonista -oltre al ragazzo- al tavolo di una caffetteria in Plaza Mayor, una delle piazze più belle del mondo. Era tardo pomeriggio, mia sorella faceva un giro per negozi, mentre a me era venuta voglia di una birra. Soltanto dopo il racconto, quell’uomo mi disse d’avere messo per iscritto la vicenda, su di una serie di fogli formato lettera”
“E ce li ha lei”
“Facciamo che fino al termine di questa storia, le domande non le facciamo in due”
“Non era una domanda”
“Antares…”
“La ascolto, Luz”
“Lo vuole un altro americano?”
“Immagino ne avremo bisogno”
Luz Inocencia si voltò nella direzione del bancone, alzò un braccio, Antares ebbe una pulsione di desiderio, la cameriera fece segno d’essere in ascolto, Luz chiese due americani, quindi i suoi occhi si poggiarono per un breve istante sopra quelli dello spagnolo, accennando un sorriso di complicità, quasi affettuoso, e tornarono ai fogli, ora impugnati con entrambe le mani. E cominciò a leggere…
Interno notte – Fine parte 5
|24827 battute spazi inclusi – 4159 parole|
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