Fare reportage significa raccontare una storia.
Che sia di sole immagini, oppure di fotografie e testo, o di narrazione soltanto, giornalistica o letteraria. Piccola o complessa, all’interno della nostra realtà, del nostro quotidiano, oppure dall’altra parte del mondo. Nell’accezione più comune, il termine reportage si riferisce al solo linguaggio fotografico, ed è sicuramente corretto.
Ma “l’estensione” allo strumento della parola è oramai diventata consolidata. In particolar modo dalla seconda guerra mondiale, vero e proprio spartiacque in questo ambito, con il moltiplicarsi delle testate giornalistiche, il metodo dell’indagine e del resoconto sia iconografico che testuale prese una forma sempre più consueta, ed indubbiamente internazionale.
La storia del reportage è assai affascinante, e anche se non è questo il luogo nel quale ci interessa trattarla, quantomeno dal punto di vista accademico o enciclopedico, ci piace però ricordare i nomi di alcuni dei “padri” del genere, da Maxime du Camp a David Octavius Hill e Robert Adamson, da Mathew B. Brady a Paul Martin. Fino a giungere, nel 1947, alla fondazione dell’agenzia Magnum, la più grande agenzia di fotografia di reportage al mondo.
I soci fondatori della Magnum furono Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, David Seymour, George Rodger, William Vandivert, tutti fotografi già noti con alle spalle una storia individuale e professionale di grande valore. Potremmo spingerci ad affermare, senza timore di eccedere, che alcuni di costoro appena menzionati sono stati, oltre che eccellenti “testimoni” di alcune delle vicende e dei luoghi più “caldi” del pianeta, anche e soprattutto artisti a tutto tondo.