E’ da poco uscito in Italia un romanzo a mio parere molto importante, dal titolo Gotico americano, edito da Bompiani, nella collana Munizioni, diretta da Roberto Saviano. E’ un’opera prima e ne è autrice Arianna Farinelli, nata a Roma e residente a New York, dove insegna Scienze politiche al Baruch College della City University. E’ una vicenda che si nutre di molte storie che si intrecciano, e gli ingredienti principali sono il razzismo e la questione afroamericana, il radicalismo di alcune scelte, la ricerca di identità, la paura dell’altro. Cito dalla seconda di copertina: “Questo libro è la storia di una famiglia, dei suoi segreti, delle sfide a cui è chiamata, ma è anche un appello rivolto a tutti noi. Yunus, il giovane studente afroamericano con il quale Bruna ha intrecciato una relazione [la protagonista, come l’autrice, insegna scienze politiche a NewYork], le lascia infatti un memoriale che è al tempo stesso una requisitoria contro l’ipocrisia delle nostre democrazie occidentali, un romanzo nel romanzo – la storia di un ragazzo per il quale l’estremismo religioso è la sola via per sentirsi fedele a qualcosa di grande – e una lettera d’amore (…)
Arianna Farinelli fa della diversità – etnica, culturale, religiosa, di genere – la lente attraverso cui misurare il mondo in cui viviamo. Ci accoglie tra le ovattate moquette dell’élite occidentale, poi spalanca sotto i nostri piedi la voragine delle ipocrisie che la mettono in pericolo. E attraverso la voce di Yunus ci addita come specchio il quadro di Grant Wood, American Gothic: “Facce bianche di vecchi impauriti che pensano di proteggere il mondo con un forcone, ma il loro mondo già non esiste più”.
E’ un libro importante perché pur essendo ambientato dall’altra parte dell’Atlantico, le questioni centrali, quali paura identità e razzismo riguardano da vicino anche noi. E un giorno dovremo imparare a guardarle in faccia molto più seriamente e consapevolmente, perché la Storia non rimane mai indietro, ma se lo facciamo noi le conseguenze potrebbero essere -e già si preannunciano- devastanti. Ora però voglio approfondire alcuni temi direttamente con l’autrice, che ho avuto modo di intervistare, e che ringrazio ancora una volta per la grande disponibilità.
Gotico americano è un romanzo sull’America di oggi, ambientato nell’America di oggi, e che per farlo ci racconta alcune pagine fondamentali -e fondanti- dell’America di ieri, della sua storia contemporanea. Perché per sapere cosa si è -e chi- non si può prescinderne. Dunque è un romanzo sull’immigrazione, sulla convivenza (o sullo scontro, come molti amano definirlo) fra civiltà, sul razzismo, sull’ISIS (anche se non ne è incentrato), sulla necessità (anche in questo caso, secondo alcuni) di definire un nemico per potersi definire. Ma è anche la storia di una famiglia, di anime irrisolte, di fragilità, e di un amore, tanto breve quanto centrale perché catalizzatore di tutti i livelli del racconto, come per il suo dipanarsi. Eppure, solo all’apparenza può risultare una matassa pretenziosa, quando in realtà il romanzo scorre fluido e ben congegnato. Tanto più considerando che è un’opera prima. Proviamo a prendere per mano e a sfilare i singoli fili di questa matassa e del romanzo con l’aiuto dell’autrice. Com’è scoccata la scintilla? Quale è stato -se ce n’è stato uno- il soggetto emerso nella sua mente per primo? Un personaggio, un’intenzione, un pretesto, un tema?
Avevo letto sul New York Times di un ragazzo americano che dopo un’infanzia difficile era diventato reclutatore per i fondamentalisti islamici. Cominciai a chiedermi allora quali motivazioni potessero spingere un giovane occidentale ad unirsi all’Isis. Mi domandai: e se fosse uno dei miei studenti a partire per la jihad? Il resto della trama mi è venuto in sogno. Era la notte del terremoto ad Amatrice, il 24 agosto del 2016. Ero a Roma e mi svegliai per la scossa alle 3:00 di notte. Quando mi riaddormentai dopo diverse ore, sognai Gotico Americano.
Se i cenni biografici che la riguardano dicono il giusto, questo è il suo primo libro di narrativa. Lei è nata a Roma e ora vive a New York, dove insegna scienze politiche. Suppongo che per la sua professione abbia scritto e si sia occupata costantemente di saggistica. Come è stato “il salto” verso la letteratura? E’ stata una fatica, una liberazione, una sofferenza, una piacevole scoperta?…
Mi sono occupata solo di saggistica negli ultimi anni. Il salto verso la letteratura è stata una liberazione. La scrittura, devo dire, mi viene con facilità. Era così anche da bambina e negli anni dell’adolescenza quando annotavo tutto sui diari. Il romanzo mi è uscito dalle dita mentre battevo sullo tastiera, non so spiegare neppure io come. I temi li conoscevo bene perché li avevo insegnati per tanti anni all’università. La narrativa a differenza della saggistica è capace di creare empatia. Mentre scrivevo provavo empatia per tutti i miei personaggi, anche quelli più terribili. La letteratura non abbandona nessuno. Si prende cura di tutti.
Estremamente interessanti, a mio parere, sono i dati e le informazioni che costantemente dissemina nel romanzo e che riguardano gli italoamericani che vivono negli USA, ma lo sono ancora di più quelli riguardanti storia e vicende degli afroamericani. La vicenda riguardante Jerome T. Browne e Yunus, padre e figlio, è emblematica in tal senso, quanto straziante. Come ha dato vita e forma a questi due personaggi?
Questi personaggi sono usciti dalla mia immaginazione, anche se avevo letto molto sul carcere di Rikers Island e sul razzismo che pervade il sistema giudiziario americano. In Yunus ho cercato di dare forma umana all’amore incondizionato. Volevo creare un personaggio che fosse in grado di amare incondizionatamente. Yunus ama suo padre, ama Bruna, ama il suo migliore amico e finisce per seguirlo a Mosul, dentro la pancia della balena, sotto tre strati di oscurità.
Fra qualche anno, i bianchi non saranno più la maggioranza, negli Stati Uniti, ma la più grande minoranza. Secondo lei questo dato oggettivo, nel paese che forse più d’ogni altro fonda la propria stessa ragion d’essere sull’immigrazione e sulla varietà di origini ed etnie dei suoi cittadini, potrebbe diventare -o è già- motivo di paura (da parte dei bianchi), quindi di ennesime tensioni, conflitti, sommovimenti, sociali e politici? E non risuona, lampante, il controsenso storico di questa paura?
L’immigrazione è scritta nel DNA di questo paese, ma per secoli è stata una immigrazione bianca. Gli afroamericani sono arrivati qui come schiavi a partire dal 1619 e non hanno goduto di uguali diritti fino agli anni Sessanta del secolo scorso. Oggi i rapporti di forza tra i vari gruppi etnici stanno cambiando. Crescono gli ispanici. Stati come il Texas, storicamente conservatori diventano ad ogni elezione più progressisti, proprio grazie all’immigrazione dal Sud America. I bianchi hanno paura di perdere peso politico e privilegi proprio perché sono in calo demografico. L’elezione di Trump è in parte una risposta a queste paure.
La storia del profeta Giona nella pancia della balena conosce svariate versioni, compresa quella della tradizione coranica di Ibn Kathir, del Trecento, alla quale, se ho compreso bene, si è rifatta lei. E’ un’allegoria potente quanto tenebrosa. Nel suo romanzo è riferita in maniera diretta a uno dei protagonisti, Yunus, e alla sua vicenda personale, ma la si potrebbe estendere all’intera condizione, allo stato di salute mi verrebbe da dire, della democrazia americana, e forse di tutte le democrazie occidentali. Nel libro, del resto, si parla esplicitamente del concetto di democrazia e, pur brevemente, della sua storia, delle sue origini, e della sua valenza. Ma si sente più di uno scricchiolio giungere dalle fondamenta… Quali simboli ha scovato nella storia di Giona che l’hanno spinta ad utilizzarla all’interno di un romanzo che parla del nostro tempo?
La storia del profeta Giona, Yunus nel Corano, è quella di un uomo che si vuole salvare da solo. Mandato da Allah a Ninive (l’odierna Mosul), abbandona la missione quando i suoi abitanti rifiutano la conversione e decidono di continuare a vivere una vita dissoluta. Allah allora punisce Yunus facendolo inghiottire dalla balena. Ho visto nella storia di Yunus la vicenda di un uomo che pensa solo a sé stesso. Il protagonista del mio romanzo invece, è un moderno Yunus e non ha paura di mettere tutto in discussione, anche la sua vita, per salvare gli altri.
A Tijuana, sul muro che delimita il confine fra Messico e Stati Uniti c’è un graffito sul quale è disegnata una frase che dice “también de este lado hay sueños”, anche da questa parte esistono i sogni. Al di là della folgorante affermazione di umanità e dignità che porta in sé, della sua portata metaforica, del riverbero che lascia intravedére Thomas Sankara e Mandela, Luther King e José Martí, e degli innumerevoli significati che possiamo attribuirvi, il riferimento, a istinto, rimanda a quel “sogno americano” che una parte sempre più consistente di cittadini americani -ma non statunitensi- considera una appropriazione quanto meno indebita. Proprio come per il concetto di “america” riferito, nella parlata comune, agli USA, anziché al continente americano in toto, dall’Alaska alla Terra del Fuoco, come è corretto che sia. Mi permetto di chiederle: cosa sogna lei per il paese in cui vive?
Sogno l’America che immaginavo quando sono arrivata qui venti anni fa e che non ho trovato. Nel mio immaginario questo era il paese dove sono nati i grandi movimenti del secondo Novecento: il Movimento per i Diritti Civili, quello per i diritti delle donne e della comunità LGTBQ. Eppure, quando sono arrivata qui ho trovato un paese molto diverso. Erano gli anni di Bush, quelli iniziati con l’11 settembre e le guerre in Afghanistan e Iraq e finiti con la crisi economica del 2008, dalla quale una parte del paese non si è mai ripresa. Sogno l’America inclusiva, aperta e progressista che James Baldwin immagina in La Prossima volta il fuoco, del 1963. Vedo nelle nuove generazioni di americani grandi potenzialità. Un sentire collettivo, un’empatia, un attivismo che alla mia generazione, viziata e individualista, sono totalmente mancati. Loro sono la promessa che il sogno si avveri.
Torniamo nuovamente a Baldwin, non per chiudere un cerchio, ma per tentare anzi di tenerlo aperto e vi si possa continuare a guardare al suo interno: “(…) Perché io non sono un negro, io sono un uomo. Ma se voi pensate che sono un negro, significa che avete bisogno di lui. E dovete capire perché. E il futuro del paese dipende da questo (…) La storia non è il passato, è il presente. Portiamo la nostra storia con noi, noi siamo la nostra storia. Se fingiamo altrimenti siamo letteralmente dei criminali (…) La storia del nero in America, è la storia dell’America. E non è una bella storia.” Nonostante queste parole, acuminate, drammatiche ma necessarie, Baldwin riteneva però anche che negli Stati Uniti potrebbe riuscire un esperimento di civiltà e convivenza di grandissima portata. Quali pensieri le suscitano, o quali sentimenti, rileggendole oggi, nel 2020, guardando il mondo oltre la finestra?
Tutto il mio romanzo si nutre della scrittura di Baldwin. Le sue parole sono attuali e necessarie e per questo in ogni pagina e personaggio che ho scritto le sue idee tornano sempre. Vorrei che fosse riscoperto e amato anche in Italia. E’ un gigante della letteratura mondiale.
Ha progetti futuri, letterariamente parlando, o pensa che lascerà isolato questo primo notevole esperimento?
Gotico Americano è il primo libro di una trilogia. Sto scrivendo il secondo volume. Si intitola Gli ultimi americani, dal libro di Fernanda Pivano “Poesie degli ultimi americani” in cui lei traduce i poeti della Beat Generation.
-Cristiano Denanni