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Gli ultimi americani, il secondo romanzo di Arianna Farinelli: un inno alle migrazioni e al potere della scrittura

Le storie non cominciano a New York e a volte non finiscono neppure qui, ma transitano e poi si concludono altrove...

Dopo l’ottimo esordio con Gotico americano (ed. Bompiani), Arianna Farinelli torna in libreria con una storia se possibile più intensa e “molteplice”, con lo scopo però di far parlare ancora l’America attraverso le voci, e soprattutto le vicende, di chi americano lo è per migrazione, di chi lo è arrivandoci per poi allontanarsene nuovamente.

E’ infatti da poco uscito in Italia il suo secondo romanzo, dal titolo Gli ultimi americani, edito da Mondadori. Ho avuto nuovamente la fortuna di poterne parlare (pur a distanza) con l’autrice, nata a Roma e residente a New York, dove insegna Scienze politiche al Baruch College della City University, e quel che segue è lo scambio che ne è seguito.

Ringrazio infinitamente Arianna della disponibilità ma anche d’averci consegnato un romanzo attraente e a suo modo poliedrico, ricco di storie, certo, ma anche e soprattutto di sentimento, e di considerazioni attorno a temi “assoluti” quali la morte, la migranza appunto, ed il significato e l’essenza stessa della scrittura.

Gli ultimi americani è il secondo libro di una trilogia.

Se volessimo guardare al tuo romanzo Gli ultimi americani come ad una città osservata dalla collina, magari con una fotocamera in mano, avremmo la possibilità, spostando l’inquadratura, di mettere a fuoco diversi punti nodali-a mio parere- all’interno del panorama. Certamente la grande rete, la struttura narrativa che tiene unite le questioni a cui mi riferisco è quella delle migrazioni, i tre protagonisti della novella, lo scrittore, Lola, ed Alma, sono infatti americani ma di origini colombiana e italiana. A questo fulcro si affiancano però altre zone sensibili -facendo fede alla metafora iniziale-, ed altrettanto investigate, ovvero quella della scrittura e del suo valore molteplice, quella della morte, quella della denuncia sociale. Con buona pace dell’editore di Alma, che le dirà perplesso che non riesce a capire quale sia il tema principale del romanzo a cui sta lavorando, penso invece che questa ricchezza sia, nel tuo caso, uno dei valori aggiunti al testo. Ma procediamo un passo alla volta: da New York le storie non partono, ma arrivano, parafrasando l’incipit del prologo. O forse sarebbe più giusto dire che “transitano”, per poi tornare altrove. Raccontare degli americani, in particolare degli Stati Uniti, significa quasi necessariamente raccontare di una scia di migrazioni, verrebbe da dire…

È esattamente così, le storie non cominciano a New York e a volte non finiscono neppure qui, ma transitano e poi si concludono altrove. Quella dello scrittore però è una storia che, per sua scelta, finisce a New York, anche se Lola spargerà le sue ceneri nel fiume sperando che possano compiere il viaggio di ritorno verso la Colombia. Tutti i miei personaggi si pongono due domande: la prima è sull’appartenenza e cioè se si appartiene al luogo in cui si nasce o a quello in cui si muore; la seconda sulle tracce che ciascuno di noi lascerà dietro di sé dopo la morte. I miei protagonisti sperano che in qualche modo il loro viaggio, come quello degli uccelli migratori, porti in sé la promessa di un ritorno.

Ricordi quando od in quali circostanze è nata l’idea, il soggetto del romanzo? L’incontro fra i tre protagonisti è “solamente” un espediente narrativo o trae origine da vicende di cui sei stata testimone?

Un mio ex studente, chiedendomi una lettera di raccomandazione per una borsa di studio, mi raccontò di aver avuto un nonno nazista, di essere stato rapito dalle FARC colombiane e di essere entrato come rifugiato politico negli Stati Uniti. Questa storia che poi io ho romanzato, inventando situazioni e personaggi, si è intrecciata al racconto che un caro amico mi aveva fatto, tempo prima, della notte in cui tentò di togliersi la vita. Nello stesso momento leggevo sui giornali delle politiche migratorie di Trump e dei centri di detenzione per illegali dove le donne ispaniche subivano operazioni ginecologiche non necessarie per lucrare sui soldi del Dipartimento per la Sicurezza Nazionale. Tutto questo è diventato Gli ultimi americani.

La grande metafora dell’immigrazione utilizzata spesso dallo scrittore è quella degli uccelli e dei loro spostamenti stagionali, a volte immensi, attraverso oceani e continenti. “A Lola una volta venne in mente di costruire una voliera. Pensava che se gli uccelli avessero avuto un nido caldo e accogliente, sarebbero rimasti con noi alla hacienda invece di volare verso nord all’inizio della primavera. (…) Quando sua madre vide cosa stavamo facendo ci rimproverò: ‘Volare attraverso queste enormi distanze è ciò che gli uccelli devono fare in eterno. Se tutti i loro desideri fossero esauditi, cosa farebbero con la loro vita? Come impiegherebbero il loro tempo? Probabilmente morirebbero di noia’”. Si migra da sempre e si migra per centinaia di motivi, ma quasi unicamente, tranne rare eccezioni, per cercare un luogo in cui poter vivere meglio la propria esistenza o potersi realizzare, in cui poter scampare alla fame, alla morte, alle dittature, alla siccità, a crimini e guerre. Nonostante ciò, una fetta considerevole di politica e di opinione pubblica, il più delle volte mosse da interessi e da ignoranza sui moventi della Storia, trattano questa cruciale questione con aggressività, quando non con odio, con disprezzo, razzismo, diciamo pure ottusità. Per la sua esperienza, raccontare storie individuali, narrare di legami e vicende come quelle tracciate fra le pagine del suo libro, può fornire appigli per uno sviluppo graduale di consapevolezza e tolleranza?

Spero di sì, è per questo che racconto, per avere la comprensione dei lettori riguardo alle vicende di persone che arrivano da lontano, spesso per sfuggire da lotte e guerre. La migrazione è una condizione di vita, una ricerca di luce e di calore. Come gli uccelli anche gli esseri umani migrano per sfuggire dalla povertà, dal pericolo, dalla penuria di cibo. Come specie abbiamo cominciato a migrare dall’Africa più di centomila anni fa, ci siamo evoluti migrando. La migrazione è parte dell’evoluzione umana.

Le pagine ambientate in Colombia, a mio modesto parere, sono tra le più felici del romanzo. In particolar modo il racconto della nascita dell’amore tra Lola e lo scrittore , la loro infanzia, le ambientazioni e la resa di tutta una serie di dettagli (anche in questo caso, mi verrebbe da dire ironicamente, con buona pace dell’editore di Alma…). Per la stesura di queste parti, hai fatto affidamento esclusivamente alla consulenza delle tue conoscenze colombiane, oltre che all’ispirazione dei vari autori che citi nel romanzo e nelle note, o anche a viaggi e sopralluoghi?

Non ero ancora stata in Colombia quando scrivevo. Ci sono andata quando il romanzo stava quasi per arrivare in libreria. Ho letto saggi politologici e articoli di giornali per poter scrivere. Ho visto video per imparare tutto sulle corride colombiane e descrivere le arene dei tori. Ho preso lezioni di tango per sei mesi per scrivere la parte in cui Lola insegna ad Alma a ballare. Ho studiato i fiori, gli alberi, gli uccelli, i costumi, la musica, le danze tradizionali. Ho letto letteratura e visto film colombiani meravigliosi.

Altro nodo focale del romanzo, come dicevamo, è quello della morte. Lo scrittore cita Lee Masters, poco più in là traccia addirittura un sorta di “compendio” sul suicidio, mentre in almeno un paio d’occasioni viene citato Hemingway “E’ la morte che crea confusione”. In effetti, a volte proprio come durante una corrida, quello della morte risulta più un sentore che una presenza vera e propria, definita, esplicata, o raccontata. “E’ sul corpo dei morti che crescono le radici dei vivi” dirà Lola ad Alma. E’ per questo che hai tentato di tracciarne i contorni?

Mi interessava capire perché una persona decide di togliersi la vita e mi interessava esplorare le domande fondamentali sul senso dell’esistenza umana. Cosa dà senso alla vita? Qual è il significato del vivere? Noi siamo l’unica specie vivente che è consapevole di dover morire eppure non pensiamo mai alla morte. Ci siamo evoluti per non pensarci. Pensare alla morte vuol dire ragionare su cosa dia significato alla vita.

Due domande sul grande tema della scrittura.

Al di là delle quasi ovvie circostanze e delle conseguenze materiali, la scrittura ha cambiato la tua vita? E se sì, in che senso? Tento un azzardo: esiste una storia, se non viene raccontata?

Forse solo le storie raccontate esistono. Il mio protagonista dice che la maggior parte degli scrittori viene dimenticata dopo la morte. Alma allora gli chiede: se è così perché tu scrivi? E lui: per provare a me stesso che sono esistito. Ecco, forse per me scrivere vuol dire proprio questo: provare a me stessa che esisto, che sono esistita.

Le lettere che Lola scrive ad Alma dai diversi centri di detenzione per immigrati illegali sparsi per gli Stati Uniti, rappresentano un’altra questione aperta del romanzo, estremamente importante, quanto urgente. Misera, oltre che umanamente e socialmente squallida, la vicenda degli interventi chirurgici non necessari sui corpi e sugli uteri delle detenute, interventi eseguiti per farsi pagare migliaia di dollari dal Dipartimento per la Sicurezza Nazionale durante la pandemia da Covid-19. Come spieghi dettagliatamente, della questione, realmente accaduta, ne hanno scritto il New York Times, il New Yorker, il Wall Street Journal e il Washington Post. Ma rimaniamo alla letteratura, e riprendiamo in mano un concetto toccato già nei nostri passati dialoghi: scrivere, per te, continua a equivalere a “denunciare”? Scrivere è un atto d’accusa, di libertà, di emancipazione?

Si, scrivere per me è anzitutto testimoniare. La cronaca entra nella letteratura e la letteratura in qualche modo la custodisce, la salva, impedisce che venga dimenticata, che si perda tra le altre notizie. Forse un giorno nessuno si ricorderà di quello che accadeva nei centri di detenzione per immigrati illegali nel 2020 ma in qualche libreria, da qualche parte nel mondo, ci sarà una copia ingiallita del mio libro a testimoniarlo. E questo mi rende felice, restituisce significato a quello che faccio.

-Cristiano Denanni


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