Salinas è il paese che rimane in terra dopo che il sole ha fatto evaporare l’acqua.
Ci sono uno sprazzo di case distribuite fra vie perpendicolari ed esposte al campo lungo del sole, donne e uomini rari seduti sull’uscio a osservare i resti del tempo, alcuni vendono acqua o poche altre bibite dal frigorifero della cucina o di un negozio costruito fra la dispensa e la finestra, bambini nella divisa di scuola s’inseguono fra risa e giochi prima di pranzo, un binario lambisce le prime e le ultime facciate, sfiora i panni stesi lungo la linea, arriva dalle piantagioni di canna da zucchero 30 metri prima del paese e termina dove fa la curva, in direzione della lontana San Lorenzo, ultimo avamposto di Ecuador nero, sulla costa che poco più in là diviene Colombia. Più in là c’è la statale, che lambisce l’altro lato di Salinas, col semaforo che sembra uno scherzo, e che se la attraversi e ti ci fermi nel mezzo, sulla linea di mezzeria, puoi vederla, nella prospettiva, ciò da cui giunge, e ciò verso cui va.
Ci sono, dietro la ferrovia e la stazione, delle giostre bianche, divorate dallo stesso posto per così tanto tempo e dall’immobilità. Alcune galline gironzolano per il giardino di fronte alla chiesa, che è forse anche l’unica piazza. Una ragazza sosta nell’angolo di una panchina, come in attesa di divenire un quadro.
All’interno di una abitazione, subito dietro la porta d’ingresso, due signore ti fanno assaggiare prodotti tipici che producono nella loro “Industria Santa Catalina”, che è poco più della loro cucina, e puoi servirti un bicchierino di piña colada o un biscotto con della marmellata di more, capire cosa ti sei perso per l’intero arco della tua vita fino a quel momento, se vuoi acquisti qualcosa, se invece preferisci, puoi assisti alla sorridente pace con la quale vivono tra frutta e bottigliette di vetro. Su alcuni dei muri del paese si incontrano grandissimi murales disegnati tanto tempo fa, che rappresentano la storia e la cultura nera del villaggio. I colori furono presi dalla vita, i marroni e i neri dagli escrementi delle mucche e di altri animali, i rossi dal loro sangue, il lavoro nei campi e la canna da zucchero dal sangue dei cittadini, quello degli schiavi.
Salinas si chiama così perché alle spalle del paese vi sono delle saline. Qui il prodotto si produce e si vende. C’è anche un museo che lo riguarda, una piccolissima fazenda dove con l’aiuto di una guida del posto puoi farti condurre attraverso le varie fasi di quel bianco mistero silenzioso.
Faccio pranzo con tre ragazzi spagnoli appena conosciuti, due vivono a Valencia e sono qui in vacanza, una di loro invece vive in Ecuador oramai da quattordici anni, a Ibarra, a 30 chilometri da qui. Uno dei due ragazzi di Valencia lavora da sedici anni in un ristorante italiano, gestito da padre e figlio siciliani. Mi dice che il papà sono quarant’anni che possiede il locale in Spagna, e che non ha ancora imparato lo spagnolo.
Ma non è questo che conta.
Perché finito il pranzo, dopo aver pagato l’ingente conto di 3 euro per primo, secondo, contorno, dolce e jugos di guayaba e mora, ci avviamo verso la stazione per risalire sul treno e tornare a Ibarra. Attraversiamo la statale incantata che porta alla costa, facciamo un isolato, e all’angolo fra due stradine, sul marciapiede, cinque bambine ancora nella divisa di scuola, un paio in bicicletta altre sedute per terra, ci salutano con la mano e ci dicono “Buenas dias!”. Noi ricambiamo, continuando a camminare. Sono sorridenti e divertite, bellissime. Poi notiamo che accanto a una di loro, credo la più piccola, avrà dieci anni o undici, c’è un minuscolo tavolino con sopra quattro o cinque posacenere di terracotta dipinti. Ci invitano a comprarne uno. Allora attraversiamo la stradina, mettono il posacenere più piccolo in mano a Josè, il ragazzo del ristorante italiano di Valencia, e lui chiede quanto fa. Gli dicono 50 centavos (più o meno 37 centesimi di euro), lui fa la battuta “Come mai così caro?”, loro sorridono. Dopodiché lui aggiunge “Mi fate vedere altro dal catalogo?”. Ci mostrano gli altri, tutti sono tutti molto carini, e tutti più grandi del primo, che Josè ha ancora in mano. Allora lui dice “Il primo è il migliore in effetti”, e le dà i 50 centavos. La bambina di dieci undici anni accanto al banchetto più piccolo della storia del commercio prende la monetona e lo guarda, dietro Josè ci sono io e gli altri due appena scostati. Lo guarda guardandoci e gli dice la cosa più semplice “Muchas Gracias, que te vaya bien!”.
Ma non è ancora neppure questo che conta.
Perché quella bambina nera nella divisa coi pantaloni marroncino e la camicetta bianca, coi capelli gonfi e le trecce increspate, lo dice con lo sguardo perso nella felicità del futuro. Lo dice guardandoci con la semplicità della ragione, con gli occhi bagnati di luce che spiegano “Guarda che per essere felice basta essere ciò che sei. Non devi pensarlo, basta esserlo“. Lo dice guardandoci come si guarda una bellissima invenzione appena fatta. Come se Josè e il posacenere, noi e quell’angolo di Salinas fossimo il trampolino per domani, e lei in quel domani ci sta credendo in modo intatto, che è l’unico modo di credere a domani. Quella bambina possiede nello sguardo liquido e luminoso ciò che non possiede e invece dovrebbe possedere chi gestisce le delicate e importanti cose del mondo, e cioè la capacità e il desiderio non di avere ma di essere la costruzione di un futuro.
Scrivo queste righe giorni dopo quell’angolo di Salinas, perché avevo bisogno di tempo per racimolare le monete di quel momento e di quello sguardo che non dimenticherò mai, neppure quando sarò più rincoglionito ancora di oggi, e magari starò su di una panchina a veder pisciare i cani e sputare i padroni, o magari in ospizio, a sentirmi raccontare che fuori piove tanto vale stare qui. Scrivo queste righe giorni dopo, in una mattina di lenzuola stropicciate di un letto ricordandomi a malapena dove sono, perché ora io sono lì, dove sono rimasto questi giorni, a quella bambina nera marroncina e bianca di Salinas che ci ringrazia d’averle dato un altro “centavitos” del suo bellissimo futuro, luminoso come è giusto che sia. Luminoso come sarà.