Si affonda nei luoghi per non perdere il filo. Per non perdersi, filo, e divenire bandolo che rotola e sfiorisce, diminuisce, piange. Ci si immerge nella geografia per tentare l’intentabile di un amore sperso nel mondo, si dovrebbero rimediare tante cose, ma intanto si traccia il perimetro di sé.
E nel perimetro si aggiustano contenuti, si abbracciano esplosioni, si rammendano orli. Ci si inabissa nei luoghi per qualcosa che ha a che fare col sempre, col tutto, col dimenticato. Magari non lo si dice o si raccontano parole blande, concetti a metà, dichiarazioni meno scomode ma non è vero, si affonda nel fuori estremo per interrompere un dentro alla deriva. Forse non lo si ammette a parole ma ogni volta che si viaggia per conficcarsi nel mondo è per questioni assolute, nulla che abbia a che vedere con carinerie smancerie cerimonie ritrattabili, firme stralciabili, azioni rimediabili, perché viaggi esattamente per l’irrimediabilità di un passo sbagliato, per un te stesso, sulla tela della terra, malvenuto.
Volevi coi piedi scostare pietre, probabilmente lo farai, volevi con le mani carezzarne levigature, anche, volevi trovarti faccia a faccia con le fronde di una foresta da febbre gialla, ci arriverai, volevi scriverti a macchia d’alveare sul margine di un foglio di un quaderno che riconosci soltanto tu, volevi ammetterti, sconfitta e rinascita, ti ammetterai, ma non sarai ultimo né primo, perché il mondo ha una geografia che ti corre appresso da prima di quel giorno che tua madre ti scaraventò nel magma epifanico e non ti concluderai neppure nell’ultima elica di mappa genetica del più futuribile dei nipoti della tua specie, è la clausola della vita, bellezza, è l’anfiteatro sul quale si recita e reciti, è il mappamondo in balìa del vento della tua babele di tentativi d’esserci.
E’ anfiteatro la geografia che traccerai, quello greco, inutile dire, è l’anfiteatro quello del filo che che si perde cantandolo, del gomitolo che si accorcia recitandolo, del motivo che dimentichi vivendoti.
Dovrai recitarti, e cantare la vita vivendola e danzare la morte morendo. Ma che cosa volevi che fosse, il viaggio, è la tua disperazione, viaggiatore, è il tuo amore tutto in fila, avvenenze e brutture senza eguali, ma che cosa volevi che fosse, che cosa volevi essere, viaggiante, me lo sai dire?
Affondi a pugnale in qualunque geografia di fuori per non sapere rispondere alle perdite di dentro, da che mondo è mondo, da che figlio non diviene padre, da che incubo e meraviglia non divengono realtà per continuare nel sogno.
E verrà, quel momento. Verrà.
Quello nel quale senza più fiato apri la porta ed esci, non per prendere aria o fotografare qualcosa di caruccio, ma perché hai la disperazione maledettamente umana di trovare un nome che ti dica dove cazzo ti trovi ora, viaggiatore anfiteatro, che ti credi?
Un nome che ti dica. Non torni a Itaca perché è lì che devi tornare, perché è lì che vuoi riposare, perché è lì che hai bisogno d’amare. Torni a Itaca perché Itaca è ciò che sei. Se non torni, mai sarai nato.