Ha un significato per me particolare questa fotografia che scattai nella Valle della Luna, in pieno Deserto di Atacama in Cile, gli ultimi giorni di gennaio 2018.
Stavamo tornando dalla “vetta” di una duna enorme, rocciosa, sulla cui cima avevamo goduto di uno dei panorami più maestosi e assoluti che mi sia capitato di osservare in vita mia. In un solo sguardo, oltre alla stessa Valle della Luna si potevano abbracciare il confine con la Bolivia a est e intuire l’oceano Pacifico a ovest.
Nella fotografia che vedete, l’ombra a sinistra -al mio fianco- è quella della guida che ci accompagnava. Un uomo di meno di cinquant’anni, cileno di madre uruguayana, parla due o tre lingue, fa da sempre questo lavoro, la guida dei luoghi del deserto.
Lo ama, si vede, prima di raccogliere una piccola pianta aromatica le cui foglie ci ha donate da mettere in infusione nel tè, si inginocchia verso le radici e recita un ringraziamento, penso sia una preghiera di origini arcaiche, precolombiane. Era stata una giornata faticosa, Atacama è la zona più arida del pianeta, e camminando su e giù per le sue sabbie le sue rocce e dentro le sue cave si rimane nel giro di pochi minuti con la bocca e la gola completamente asciutte, tanto da avere la sensazione di non riuscire neppure a respirare.
Il cuore ti pulsa nel petto e devi concentrarti per capire che non stai morendo.
Ci sono stati alcuni momenti durante la lunga passeggiata, specie scendendo e risalendo dalle cave (di cui posterò foto a breve), nei quali molti di noi non riuscivano ad arrampicarsi per certi costoni, o a saltare da un dislivello a un altro. Io in particolare ho alcuni problemi con le gambe, e di fronte a un paio di passaggi avevo dato per scontato di non potercela fare.
Ma chiedendo aiuto a quest’uomo, quei due o tre attraversamenti più ostici li ho sorpassati, e l’ho fatto grazie ad una “semplice” mano, ignorando di possedere ancora una forza capace, magari da allenare, certo, ma affatto scomparsa.
Ecco, io pubblico questa fotografia e ve ne parlo, però, non perché sia orgoglioso dei miei poveri muscoli, ma di un’altra forza, invece, quella di chi abbiamo a fianco, e della nostra per loro, di chi ci allunga una mano quando chiediamo, la forza grazie alla quale siamo uomini: gli altri.
Avrei raggiunto la cima anche da solo? Sì. Ci avrei messo di più ma ce l’avrei fatta. Avrei perso l’equilibrio e avrei rischiato di cadere invece di trovare il suo braccio che mi sosteneva. Avrei aggirato due ostacoli e sarei passato altrove. Certo. Tutto vero.
Ma il nostro viaggio, anche il più solitario (e io amo la solitudine) non esiste senza la vita che abbiamo attorno, senza la comunanza, senza l’aiuto, senza la mano, l’abbraccio, una voce, quegli occhi.
E’ stato lui a scattarmi le tre fotografie che amo di più di me, e nelle quali sono più IO che in tutte le altre fotografie della mia vita. Qualcuno la ricorderà, una l’ho postata una settimana fa. Siamo noi che possiamo arrivare nei luoghi più incredibili, anche i più estremi, se abbiamo la volontà di farlo, nel mondo come nella vita. Anche se di solito lo ignoriamo. Ma ogni strada ci è preparata dal mondo.
E il mondo non è soltanto meravigliose rocce a forma di splendore, ma anche donne e uomini con gli occhi e le rughe come i nostri, che sono passati di lì quando noi pensavamo di avere inventato il mondo, o di esserne gli unici vincitori o gli unici sconfitti. Senza quell’ombra accanto alla mia, in quel quasi tramonto di un gennaio diafano di ritorno da una meraviglia senza pari raccontandoci le rispettive storie di noi, non avrei ricordato la meraviglia di essere qui, su questa terra, che odiamo e sprezziamo in qualsiasi modo, perché odiamo e sprezziamo gli uomini come noi ogni giorno, credendo di essere unici e soli, quando in realtà esistiamo soltanto grazie a coloro che esistono grazie a noi.