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C’è una cosa…

Un racconto

Il martedì a mezzogiorno estrasse la chitarra dalla custodia e suonò il pianoforte. Kim era fatto così ma non per forza. Sedette molto vicino al bordo sinistro dello sgabello rettangolare di morbida pelle finta e si scaraventò sulle note, sì insomma sui tasti, con la foga di chi esce dall’acqua un attimo prima di annegare. 

Fuori, oltre la finestra, dalle parti del mondo, un’aria rinfrescata dal temporale ringalluzziva la pasta appiccicaticcia di luglio. Suonò tre brani, i primi tre dei quali improvvisati. Anche se potevano sembrare tre parti, o tre movimenti se preferiamo -c’è chi preferisce- di uno stesso brano. Il tema in effetti si affaccia già al termine della prima parte, si ripresenta nella seconda, e per quanto in modo molto diluito, quasi disciolto, se ne percepiscono echi nella terza. Appena terminato, lo avvolse la sensazione della solitudine, ma in quello stesso istante sentì cingersi dalle braccia di Aleyandra, il suo amore, una piccolissima donna sorridente che piangere non piangeva dal primo giorno di scuola, ormai un venticinque anni prima, a spanne. Così che la solitudine rimase alla stregua di un fiammifero che raschia il bordo della scatola ma senza appiccare. 

Aleyandra era entrata in salotto scalza e in sottana, bella come solo un piccolo seme d’amore sorridente e non truccato sa essere nell’universo, e lo raggiunse di soppiatto perché ciò che aveva da dirgli era una sorpresa molto più grande di lei stessa, del pianoforte e della piccola sala che lo circondava. In realtà la stessa era una stanza appena più grande del quarto di coda che conteneva, e che non ne agevolava, peraltro, una decente resa acustica. Ma Kim e il suo amore erano una giovane coppia poco propensa ad accumulo di capitale, e dovevano accontentarsi. Il pianoforte era un lascito dello zio di Kim, ferroviere col pallino per i tasti bianchi e neri del generale degli strumenti musicali, e tutti o quasi i suoi introiti li spendeva al pagamento delle rate dello strumento e nella musica. Solo che lo zio se n’era andato troppo presto e nessun altro in famiglia voleva tra le scatole quello splendido affare marrone scuro dalla voce legnosa e scardinante. 

Insomma, dopo un abbraccio lento, quasi un adagio, che li vide arrampicarsi come rami d’edera l’una sul busto dell’altro, stettero in silenzio. La musica era ormai acquietata, e l’aria praticamente ferma. 

Fu Aleyandra a parlare per prima.

“Kim, mio senso… c’è una cosa…”, e i suoi occhi scivolarono su quelli di lui, per un istante appena, prima di raggiungere il pavimento, come goccia di pioggia su di un parabrezza.

“A… Aleyandra… c’è una… c’è una cosa? E… sì, che cosa? Sembri… cioè sembri molto seria e… e però molto contenta…”, rispose Kim con quella balbuzie più o meno persistente a seconda dei momenti che si portava appresso da quando era ragazzo, per motivi complicati da esaurire nel giro di poche righe, è ovvio. Questioni che avevano a che fare col rapporto coi genitori, la violenza della madre, l’allontanamento del padre, cose così, che disgusterebbero chiunque, beninteso.

Nel frattempo Aleyandra sorrise.

“Hai ragione! Sono seria e contenta e… se tu balbetti così già ora, oggi sarà complicata…” s’interruppe scoppiando a ridere, inondando l’aria di note meno legnose ma più piccoline eppure anche sensuali del pianoforte.

Kim non disse nulla ma sorrise anche lui, tra il contrariato e il curioso. Poi Aleyandra proseguì, una volta riconquistata una dubbia serietà.

“Eccoci Kim, insomma… ci provo… tu hai le mani attorno alle mie spalle, io le ho su di te e sulla tastiera… dovremmo farcela a non cascare! La questione è la seguente: tra qualche mese saremo mamma e papà, testa dura del mio cuore…”

Kim guardava gli occhi di Aleyandra e guardava l’aria inciampata, guardava le sue labbra e guardava di straforo il pianoforte, guardava le sue cosce mezze nude e guardava le ultime note rimaste impigliate alle pareti (che probabilmente vedeva soltanto lui), guardava i suoi seni e guardava cose sparse, come a tentare di risolvere un rompicapo paleolitico o un geroglifico sanguinolento. 

Poi parlò.

O meglio, tentò.

“A… A… cioè sa… saremo… tra qualche… saremo… Ale… Aleyandra….”

“Ehi Kim, mentre finisci di parlare sarà nato! Kim sono qui, guarda solo me per un attimo… Baciami! Baciami, ragazzo matto!”

Si baciarono come il tempo, che allunga le sue braccia per avvolgere più domani possibili. La mano di Aleyandra sulla tastiera si ritrasse spiluzzicando un sol, mentre l’altra raggiunse la ragione in mezzo alle gambe di Kim. Stettero nell’implosione del presente tra le lingue impigliate a un soffio d’incendio. 

Dunque rinvennero. 

E Kim ritentò.

“A… Aleya… Aleyandra ma… saremo mamma e… aspettiamo… cioè sei incinta? Aspettiamo un bambino?”

“…o una bambina. Non lo so e, se tu sei d’accordo, non lo sapremo fino a che nascerà…”

“A… Oddio A… Aleyandra!… Che… Che cosa dici? Che cosa bellissima!…”

“Sei felice?”

“A… sono… sono felice? Aleyandra sono… cioè saremo mamma e papà… sono più di tutta la felicità!”

“Stringimi ancora ragazzo che non sei altro!…” e fu così che il pomeriggio rinvenne a sera, tra silenzi indifferenti di vicinato e luce di fuori tra i tasti ed i vestiti alle caviglie. 

Era tardi quando si spostarono a letto, ancora disfatto, nella stanza accanto. Dopo l’amore parlarono e parlarono, sottovoce, per una spudorata manciata di ore. Era femmina, era maschio, era moro come mamma e papà, aveva gli occhi del nonno della zia o del gatto randagio che faceva visita ai corridoi di ringhiera, aveva sei anni e lo accompagnavano a scuola, ne aveva quindici e faceva a botte col mondo, aveva la barba incolta le tette semidolci della mamma e le rughe incise del papà, era simpatico era testarda era fragile era sognatrice era pragmatico poeta ingegnere pianista sorvolatore di oceani nelle notti di luna timida e di terra sudicia, si sarebbe illusa avrebbe creduto a tutto non avrebbe più creduto alle parole, sarebbe stato alto miope seduttrice bugiardo furba ingaggiatore di pugili senza patria. 

Era sempre più tardi ma divenne presto, perché l’alba li sorprese a parlare ancora, stavolta del lavoro, che Kim stava di nuovo cercando, e di quello di Aleyandra, fortunatamente un poco più stabile, quindi di sacrifici e rinunce, di utopie e realtà, di giostre da non lasciarcisi cadere. 

Era mercoledì, insomma.

Mercoledì e luglio.

Quando, meno assonnati che ubriachi, si divertirono ad abbozzare un primo nome per il loro primo figlio, scattò la sveglia delle sei. Ma Aleyandra quel giorno non aveva turno in ospedale, e poterono proseguire coi giochi e la vita, come chitarra che lascia spazio al pianoforte nei divertimenti di Kim, senza soluzione di continuità. 

“Puebla!”, era stato Kim a pronunciarlo con forza, guardando Aleyandra negli occhi come si guarda un giorno che non avevi messo in conto di vivere ancora. Per poi aggiungere, saltimbanco tra incespicamenti e balbuzie: “co’… co’… ah sì e… ecco… come… come la città dove sei nata!…”.

“Oh Kim… ma… non ci avrei pensato sai?…” replicò, come addolcita, Aleyandra. “Bè… non mi dispiace affatto… anzi! Kim io… grazie… grazie di questo pensiero, di tutti i tuoi pensieri. A volte -te l’ho già detto- mi ha salvato la vita la tua visione sgangherata e innamorata delle cose…”

“No… non… non ci sei più potuta tò… tornare, in… in… in tutti questi anni e… cioè… così almeno potrai pensarci ogni giorno, parlando con.. con… con nostra figlia…”

“Ora smettila che mi fai piangere… E se fosse maschio?”

“Messico!”

“Cretino che sei!…” sbuffò ridendo tra le lenzuola arruffate.

“Non… cioè… non esiste un nome maschile così?”

“Mi sa di no, ragazzo matto… e anche su Puebla ho qualche dubbio…”

“E bi… e bi… e bisognerebbe inventarli pe… però!”

“Lo penso anch’io!…” ridacchiò, anche se abbastanza seria, Aleyandra. E proseguì: “Dammi un’alternativa. Nel caso in anagrafe non ci lasciassero carta bianca…”

“Mattia”

“Mattia mi piace… meno di Messico ma possiamo portarlo avanti!”

Stettero in silenzio un inadeguato istante di tempo, nel quale Kim sembrava essersi oscurato, anche se sarebbe più opportuno dire concentrato.

“A… e che… cioè… Aleyandra ma… che cosa posso insegnare… cioè voglio dire… che cosa si insegna a un bambino quando sei stato… quando sei stato fino all’altro giorno in un reparto psichiatrico come me?…”

“Kim… ehi… ma di cosa stai parlando? Stai scherzando vero?… Sei stato in un reparto psichiatrico per tutti gli accidenti di motivi di questo mondo… brutti? Sbagliati? Giusti? Quanti di noi sono stati in qualche reparto di ospedale, e quindi? Così è e io sono una donna felice pur dall’altra parte del mondo rispetto a dove sono nata proprio perché tu esisti! Basta come “cosa” da insegnare? Ah ecco…aspetta… perché non gli insegni la gioia alla fine del dolore, ricordi quando sei uscito da lì?…”

Aleyandra a volte si faceva seria quando si parlava del suo amore a cui sentiva di dovere molto di tutto quel che era.

“Mi… cioè mi… mi ricordo, sì, sì che mi ricordo…”

“Perché non gli insegni la fatica di voler vivere?…”

“Hai… A… Aleyandra… hai ragione…”

“Oppure la pazienza della vita…”

“A… cioè Aleyandra… perché sei arrabbiata?…”

“Io?… Io Kim non sono arrabbiata… io ti amo, semplicemente, e penso al vuoto scellerato e pericoloso che donne e uomini che si dicono padri e madri inculcano ai loro figli, e penso a te, alla fatica, alla pazienza, al dolore -tutte cose di cui attendo che tu mi dica come spiegheresti a nostro figlio- e alla bellezza folle eppure pragmatica che ne hai fatto per continuare a vivere, che ne hai fatto per rendere felice una donna messicana trapiantata in questa terra triste che tutti dicono fosse il paese del sole, che ne hai fatto per rendere ogni giorno differente dall’altro, che ne hai fatto per non nasconderti mai ma per darti quella luce di dignità che porti come un cappello fatto su misura per te… Dimmelo tu, Kim, cosa insegneresti a nostro figlio il giorno che impazzirà o s’impiccherà per amore… vorrei sentirlo da te perché tu sai cos’è quella cosa… cosa gli insegneresti della fatica… cosa gli insegneresti del dolore?…”

“A… Aleyandra io… A… cioè…”

“Una volta finito di balbettare, s’intende…” precisò lei con una curva morbida di ironia al fondo delle labbra e della voce.

“I… cioè io… Aleyandra io… forse gli… forse gli direi che la fatica è… che… che la fa… sì insomma è quella cosa che potrebbe… avere a che fare con l’esserci stati… e anche l’amore A… Aleyandra no?… con l’esserci stati quando tutto se… sembrava andare bene e l’esserci stati quando tutto… ma proprio tutto se… sembrava andare male… potrebbe no?… Avere a che fare con l’avere resistito aggrappati alle… come… come si dice… alle spire dell’uragano. Forse la fatica e l’amore sono… cioè sono anche resistenza no?… E… e… e la forza è avercela fatta a resistere, a non perdersi, a non lasciare perdere ecco, a non andartene, tu che avresti potuto andartene e invece quando… no?… quando sono uscito quel giorno dopo tutti quei giorni tu eri lì e mi hai… mi hai offerto un caffè al bar… te lo ricordi?… Al bar di fronte all’ospedale e… e… e mi hai detto che avevi preparato il burrito di carne per cena… mentre io pensavo che mi avresti detto che avevi trovato un altro, o che tornavi in Messico, o che ti saresti voluta sposare con uno più… più… più normale, più aff… aff… affidabile… più benestante… invece mi hai detto solo che avevi preparato il burrito di carne per cena e… e… e quel ‘solo’ invece per me… per me era tutto e…”

“Per noi era tutto, Kim…” lo interruppe calma ma decisa Aleyandra, stanca eppure bella, inondata com’era dalle ore intatte della notte e del mattino.

“P… p… per noi era tutto… per… perché tutto è stato sempre… sempre solo essere noi, e non tu e non io… tutto è sempre stato noi…”

“Lo vedi? Anche questo sapresti insegnare a nostro figlio. Cos’è tutto? È insieme. Da soli non è… Ho detto bene?”

“Hai… sì tutto è insieme o non è… hai… hai detto bene… e… e la solitudine brucia la pelle, co… consuma i muscoli, ti… ti fa credere a cose… a cose che non esistono, che… che sei figo, o che sei sbagliato, o che sei un dio o che sei da buttare e invece… e invece è un abbaglio, perché non c’è niente di tutto questo, sei… sei solo una parte che pende dalla parte dove manca l’altra…”

Mezzogiorno li avvolse senza che se ne accorgessero in una conca di luce bianchissima che s’affaccendava attraverso le finestre spalancate. Fuori, i soliti rintocchi di un campanile al quale né l’una né l’altro avevano mai creduto, le solite ambulanze che da lontane si facevano vicine per poi riallontanarsi, il solito gioco della realtà incastrato nelle viscere del mondo. 

Quando Kim si rimise al pianoforte, sopra il quale erano appoggiati la chitarra -che anni prima gli avevano lasciato tenere anche in reparto- e la relativa custodia, un giorno era già in più nelle loro vite. Aleyandra, dalla camera da letto, lo ascoltò improvvisare per qualche minuto, poi si spogliò interamente e si allungò sotto le lenzuola, e dopo poco si addormentò. 

La loro prima e unica figlia non nacque che tre anni più tardi, all’incirca. Perché Aleyandra subì due aborti spontanei. Alla terza gravidanza però, e inaspettatamente, nacque Puebla. Che era mora come mamma e papà e con le tette semidolci come Aleyandra. Ci fermiamo qui perché per il resto non ci è dato di sapere se fosse simpatica testarda fragile sognatrice pragmatica poetassa ingegnere pianista sorvolatrice di oceani nelle notti di luna timida e di terra sudicia, e neppure se si sarebbe illusa o avrebbe creduto a tutto o non avrebbe più creduto alle parole, e neppure se fosse stata alta miope seduttrice bugiarda furba e o ingaggiatrice di pugili senza patria. Però un giorno sua madre le avrebbe raccontato che da dove vieni è, nostro malgrado o fortunatamente, più importante di dove sei ora, al di là delle favole che ci raccontiamo, e suo padre, una mattina prima di andare a fare pulizie all’ufficio postale, vedendola disperata per un amore che non ingranava, le avrebbe spiegato che l’amore è sì la più bella delle invenzioni del genere umano, sopra anche al burrito con la carne e al pianoforte, ma che a volte siamo disposti a tutto per convincerci che le persone da cui vorremmo essere amati ci stiano realmente amando, e ci vuole un po’ di solito a capire che non è il massimo, ed è chiaro che girino i coglioni (questa parte riuscì a tenerla per sé all’ultimo), anche perché di solito è nella distanza tra quello che raccontiamo e quel che facciamo che cominciamo a perdere chi amiamo, e vabè sì insomma il fatto è che l’amore ha più a che fare con il delirio fanatico e la malattia che con la cura, ma soprattutto con l’esserci stati nonostante tutto e con la fatica, più ancora che con la poesia, e che la fatica ha a sua volta una relazione stretta con la pazienza, con il lavoro duro e con la resistenza, e che sua madre avrebbe comunque saputo spiegarle meglio -aggiunse come pensando a voce alta-. Sta di fatto che non fa niente -concluse guardano Puebla e le sue lacrime rinsecchite e lo sguardo sconsolato- perché nonostante tutto rimane più importante vivere, l’amore e la vita, che parlare, perché se hai aspettato tanto sai che non c’è tempo per tutto il tempo che non ci diamo, e che da soli, sempre in tema di favole da smentire, si è solo una parte che pende dalla parte dove manca l’altro.

-Cristiano Denanni

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