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Alla mia piccola Sama | I bambini nell’assedio di Aleppo

L’infanzia termina senza essere cominciata, in guerra. I bambini giocano anche sotto le bombe, giocano nei campi profughi e in molti controsensi della vita, certo. Ma non è un’infanzia, un bambino che gioca tra le bombe. E’ un’altra cosa. "Alla mia piccola Sama" è un film-documentario d'una potenza ed efficacia rare, da vedere.

“L’umanità ha il dovere di dare al fanciullo il meglio di se stessa.”
-dal Preambolo alla Dichiarazone Universale dei diritti del Fanciullo (Dichiarazione di New York 1959)

L’infanzia ci riguarda tutti. Ma non tutti possono permettersela.

Penso che una delle fortune più grandi della mia vita sia stata quella di non avere mai vissuto in guerra. Da adulto, come da bambino. Nella mia famiglia, coloro che l’hanno sfiorata sono stati i miei genitori, con ricordi vividi delle prime conseguenze dirette, come la fame e la povertà. Mentre devo risalire ai miei nonni (oggi non sono più in vita) per trovare qualcuno che l’abbia effettivamente vissuta, o addirittura combattuta. Al di là dei racconti, però, al di là delle letture, dei film, dei documentari, ecc, io non ho esperienza diretta della guerra. Per cui tutto quello che posso percepire e sapere della guerra -delle guerre- è di rimando a testimonianze, e a racconti altrui. 

Di recente, Alla mia piccola Sama (tit. or. For Sama), un film di Waad al-Kateab ed Edward Watts, è riuscito però nel tentativo di immergermi, con una efficacia a tratti spiazzante, in una realtà che non è la nostra, ovvero quella dell’assedio di Aleppo, durante la guerra in Siria. Waad al-Kateab è una filmmaker siriana, giornalista embedded (collabora anche per il canale britannico Channel 4), che nel gergo del XXI secolo sta a indicare quel tipo di reporter di guerra aggregati, con modalità varie, alle truppe. Anche se nel caso di Waad il suo essere “incorporata” non si riferisce a un esercito, bensì ai civili.

Quello cui prendiamo parte, come spettatori, è il dipanarsi di una lunga lettera d’amore che Waad “compone” con l’ausilio di una telecamera, per sua figlia Sama. Sama è, nell’orrore ma anche nelle piccolissime gioie che prendono forma durante i lunghi mesi e anni di vergogna, protagonista assoluta del documentario. Ma lo sono anche molti altri bambini, che siano figli di amici di famiglia, oppure pazienti che giungono, giorno dopo giorno, all’unico ospedale che tenta di resistere (gli altri sono stati tutti sventrati dai bombardamenti), quello gestito da Hamza, compagno di studi prima, marito e padre di Waad e di Sama poi.

Waad filma un documento d’una potenza ma anche d’una sensibilità rare. Lo spettatore sa, infatti, che nulla di quello cui sta assistendo è frutto d’una “produzione” cinematografica, realizzata dentro set o studi di posa, i protagonisti non sono attori, gli ospedali, i bombardamenti, le urla delle persone, lo strazio dei parenti ai capezzali, le lacrime e le risa e i momenti di gioia, che pure accadono, sono avvenuti realmente. Waad afferra la videocamera e filma, per mesi, ciò che accade nella sua vita e di conseguenza per le strade di una città tenuta sotto scacco dai bombardamenti delle forze aeree russe, alleate del regime di Bashar Assad.

Filma una vita soverchiata alle fondamenta dalla guerra, dalla paura, dalla lotta per resistere. In questo cortocircuito traumatizzante, a farne maggiormente le spese sono i più deboli, come in ogni realtà di crisi, fra questi i bambini. Qui risiede una delle peculiarità del film. Uno dei -tanti- meriti della regista è stato infatti quello di trainare la narrazione non solo per mezzo del suo ruolo di testimone e di reporter, ma innanzitutto tramite quello di madre, e di donna. In questo modo Waad è in grado di permettere al suo occhio di restituire una vicenda che non si pone solamente il compito di raccontare quel che vede, ma di ridisegnare innanzi alla nostra incredulità e alla nostra empatia una vita quotidiana immersa in una realtà estrema, folle, sbagliata.

Si alternano così momenti di intimità, come quello del test che conferma a Waad d’essere incinta, a sequenze sconvolgenti come l’arrivo di bambini, feriti, morti, all’ospedale di Hamza, o ancora il matrimonio tra i due, dolce pur in mezzo al disastro, alternato al pianto di parenti e genitori di fronte ai cadaveri dei figli. Il film non restituisce quindi soltanto uno spaccato di vita sotto assedio, ma lo fa, attraverso una videocamera tenuta in mano da una madre, dando voce, e priorità, ai bambini. Una voce da protagonisti, dunque, non comparse. E’ a Sama che sua mamma chiede perdono per averla fatta nascere in quell’inferno, è per Sama che ha sentito l’urgenza d’una lettera d’amore tra le bombe e la morte, o ancora, è per gli allievi della scuola dove lavora Afraa -amica di Waad e insegnante- che le classi vengono spostate sotto terra, in modo da fare lezione protetti dai bombardamenti. E’ all’infanzia insomma che questo gruppo di adulti si rivolge, continuamente, per capire dove sta la luce attraverso le macerie, perché è l’infanzia l’unica possibilità di futuro, e quindi di speranza, forse perché simbolo incarnato, nel sopruso, di giustizia. O quantomeno della sua possibilità.

alla mia piccola Sama For Sama Waad al-Kateab Edward Watts film Dichiarazione di Ginevra
Waad al-Kateab e Sama

Tra i momenti cardine del documentario, a ulteriore prova del rispetto nei confronti dei bambini e della priorità a essi attribuitagli, colpisce profondamente uno scambio tra la regista e Afraa, la quale, innanzi al rovello fra rimanere o scappare, si trova a rimarcare che non lascerà Aleppo, perché “i bambini vogliono rimanere, come potremmo andarcene?”. Waad aggiunge: “Ho provato molto rispetto per questa famiglia (…) Scappare sarebbe stato l’esempio peggiore da dare ai bambini. Anche se, restando, significava farli vivere all’inferno”. A inizio film, del resto, Waad lo confessa chiaramente a Sama: “I need you to understand what we were fighting for“. E’ una scelta complicata (ed io, da adulto e da bambino che non ha mai vissuto in guerra non posso fare altro che tentare di immaginarlo), una scelta coraggiosa, una presa di coscienza netta. Allo sguardo di alcuni di noi potrà risultare addirittura controintuitiva. Sarà un altro bambino ancora a dispiegare una parte del dilemma, quando si troverà a dire, a proposito dei suoi amici scappati altrove con la famiglia, e lasciandoci senza fiato “Che Dio possa perdonarli, per avermi lasciato solo”. 

L’infanzia termina senza essere cominciata, in guerra. I bambini giocano anche sotto le bombe, giocano nei campi profughi e in molti controsensi della vita, certo. Ma non è un’infanzia, un bambino che gioca tra le bombe. E’ un’altra cosa. Eppure non è un evento raro, non si contano i conflitti in essere in giro per il mondo (secondo dati UNICEF, nel 2018 i bambini nati in zone di conflitto sono stati 29 milioni). 

Noi oggi sappiamo che a livello istituzionale sono stati sviluppati, in epoca contemporanea, programmi di protezione internazionale per i civili, per i civili in guerra e, per la prima volta, con un occhio di riguardo per l’infanzia. Dalla Dicharazione di Ginevra -o Dichiarazione dei diritti del bambino- (la prima attestazione significativa ma non la prima in ordine cronologico), redatta da Eglantyne Jebb -che assieme alla sorella Dorothy fondò Save the Children nel 1919- e approvata dalla quinta assemblea della Società delle Nazioni nel 1924, alla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del 1948, alla Dichiarazione Universale dei diritti del fanciullo, approvata dalle Nazioni Unite nel 1959, fino ad arrivare alla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 20 novembre 1989, e ratificata dall’Italia il 27 maggio 1991.

Abbiamo redatto e proclamato una dote significativa di strumenti e di riferimenti internazionali, nell’ultimo secolo, a tutela dell’infanzia. Non v’è dubbio. Strumenti che hanno certo permesso a molti stati di compiere significativi passi avanti nell’impegno a inserire direttive a tutela dell’infanzia nelle rispettive legislazioni o regolamentazioni (non dimentichiamo che i regolamenti emessi dalle Nazioni Unite non possiedono una dimensione prescrittiva), eppure lo stato delle cose fotografa una situazione molto più che allarmante. Mai come nei conflitti degli ultimi decenni infatti, i civili figurano come la stragrande maggioranza delle vittime, e fra questi, una cifra spaventosa riguarda i bambini. 

Dal 2005 a oggi, secondo  il meccanismo di monitoraggio MRM (the monitoring and reporting mechanism) sono stati documentati 250.000 gravi violazioni contro i bambini nei conflitti armati, tra cui:

  • il reclutamento e l’impiego di oltre 77.000 minori
  • l’uccisione o il ferimento di oltre 100.000 bambini
  • stupri e altre forme di violenza sessuale nei confronti di più di 15.000 minorenni
  • il rapimento di oltre 25.000 bambini e ragazzi
  • quasi 17.000 attacchi armati contro scuole e ospedali
  • quasi 11.000 casi di negazione dell’accesso umanitario*
Eglantyne Jebb

In questo scenario, subentrano con prepotenza ulteriore le conseguenze, sia immediate che le probabili a lunga distanza, delle misure contro il Coronavirus, il virus che causa il Covid-19. Un report di Save the Children del luglio di quest’anno evidenzia come “la chiusura delle scuole come misura preventiva contro il Coronavirus ha lasciato 1,6 miliardi di bambine, bambini e adolescenti fuori dalla scuola: circa il 90% dell’intera popolazione studentesca. Ad oggi sono 1,2 miliardi gli studenti colpiti dalla chiusura delle scuole, prima dell’emergenza erano molto meno di un quarto, 258 milioni (…) Almeno 9,7 milioni di bambini saranno costretti a lasciare la scuola per sempre entro la fine di quest’anno (…) Il cammino per garantire entro il 2030 a tutti i bambini di poter andare a scuola era già a rischio, e non aveva registrato significativi progressi, ma l’emergenza Covid-19 rischia di consegnare a una generazione di bambini un futuro fatto solo di povertà”

Perché questo articolo insomma? Perché vorrei esortare vivamente coloro che forse lo leggeranno a visionare il film Alla mia piccola Sama, innanzitutto. Il documentario (Candidaro all’Oscar per il miglior documentario, e vincitore del premio BAFTA, di 4 premi British Independent Film Awards, dell’European Film Awards, de L’Œil d’or al Festival di Cannes, del National Board of Review Awards e del South by Southwest Film Festival) mentre scrivo è reperibile gratuitamente su Google Play, e a pagamento, su YouTube, e su Amazon Prime Video.

Wanted Cinema però, la società di distribuzione cinematografica che ha gestito il titolo per l’Italia, potrebbe riproporlo quanto prima su Wanted Zone, una nuova piattaforma online che si propone di diventare una “sala virtuale” di cinema ricercato (in collaborazione con MyMovies).

Per quanto riguarda le edizioni in lingua inglese, potete trovarle qui:

versione UK (Channel 4)

versione US (Frontline)

La mia preghiera, però, è di guardarlo andando oltre l’emozione che probabilmente susciterà (ho faticato a trattenere le lacrime, più d’una volta, durante la visione). Una sequenza in particolare tiene aggrappato ciascuno di noi ad un filo estremamente sottile, un cesareo d’urgenza in una sala operatoria ci inchioda innanzi ad una improvvisa mancanza assoluta di risposte, facendoci vivere per un minuto senza respirare. Tanto che gli sviluppi del passo faranno apparire come “miracoloso” ciò che accadrà. Ecco, non fermiamoci alla scarica emozionale però. Perché con la sola reazione emotiva (fondamentale e benedetta, in quanto umana, sia chiaro) non sapremo aggiungere nulla a un discorso che potrebbe invece trovare una strada dentro alcuni di noi, o proseguirla, per altri.

Scrivendo questo testo mi sono mosso tra filmati, documenti, convenzioni, libri, bibliografie, report, ed ho aggiunto molti dubbi ma anche qualche informazione in più a certe convinzioni che, come tutti, mi porto appresso riguardo l’infanzia e al rapporto tra vita e morte, che nel film fa da padrone, e che investe, guarda caso, primi tra tutti i bambini. Che non possono fare altro che affrontare.

L’infanzia dura poco, ma dura per sempre”, scrive Ricardo Menéndez Salmón.

Probabilmente il rapporto intessuto con la nostra può dispiegare quello che intrecciamo con le infanzie del mondo. Le scelte che siamo in grado di fare, od anche solo comprendere. I significati che troviamo per spiegarla, o per accettarla. Ciò per cui sapremmo batterci, o metterci in discussione. Forse perché continuiamo a essere la felicità e le sofferenze che abbiamo conosciuto allora.

*dati UNICEF – 24/06/2020


Sama oggi sta bene. Così anche Waad, Hamza e Afraa (che ringrazio per la disponibilità e la gentilezza). Non sono più in pericolo di vita. Per sapere qualcosa riguardo alla campagna Action For Sama e #StopBombingHospitals, per sapere qualcosa in più sulle vite di queste persone, o per dare il proprio aiuto, basta cliccare sul link qua sopra.

Ringrazio Wanted Cinema per la collaborazione e la disponibilità.

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